Autore
| Franco Gallo Della trasparenza e della superficie
Di tutti gli organi del nostro corpo, il più esteso e a cagione di ciò anche complesso è, con tutta probabilità, la pelle. Non solo funge da barriera, segna confini e istanzia la differenza tra un dentro e un fuori, tra uno spazio di identità e uno di alterità; ma è altresì filtro, scenario dell’interscambio essudativo; forma, governo del manifestarsi della persona; involucro, segno controvoglia della generica esiguità del nostro contenuto mortale; appoggio, spazio fungibile e ricopribile, ipersignificabile con il trucco, il vestiario, l’ornamento... Questa sua multiforme funzionalità la fa spesso assimilare, pertanto, a una maschera di una dimensione di verità più profonda, intima e sanguigna, che si tende a vedere come essenziale a dispetto del suo spessore sostanzialmente esiguo. Ma che accadrebbe se si prendesse sul serio la sua funzione di cerniera imprescindibile e si ragionasse, provocatoriamente, sulle conseguenze di una rivoluzione del derma? Di un rifiuto della pelle a essere struttura di servizio, facility di integrazione dell’identità organica e psicologica? E se la pelle esplodesse oniricamente verso un’implementazione imprevedibile della propria capacità di ricoprire, avvolgere, mimare? Se la pelle rinunciasse completamente a quella tridimensionalità che, sia pure asimmetricamente, la inchioda al piano del reale e diventasse foglio bidimensionale, lucido, di copertura, libero da ogni inchiavardatura di umori e tendini alla nostra fragile corporalità? Sono le domande che emergono dalla disseminazione delle silhouettes che attraversa il lavoro recente di Trabattoni: domande legate anche alla decrittazione di una poetica della moltiplicazione dei piani, della giustapposizione e dell’incrocio delle trasparenze, della gestione fotografico - informatica delle figure come semplici livelli dell’istanza grafica che testimonia una derealizzazione convinta dell’immagine e una tendenza alla ricombinazione segnico - iconica che si colloca appunto al livello del desiderio. A metà tra il piano dell’immaginario, della proiezione ossessiva e ancipite (paranoica? narcisistica? depressiva?) dell’Ideal Ich nello spazio percettivo e psicodinamico, e il piano del reale, dell’incontro traumatizzante con la pluralità destrutturata della mercificazione dei corpi nello spazio sociale, il proliferare delle superfici corporee composte in grafemi lacaniani, intrecciate quasi a ghirlande e iterate, svuotate di fondo e rese loghi ed etichette, appare al fruitore intrinsecamente ambiguo. Può essere lo sforzo di una proiezione ulteriorizzante del Desiderio: un tentativo di ricomporre dentro la gioia dell’organicità, dell’ordine, della vita e dell’Eros uno spazio sociale latore di morte e di caos, bisognoso di essere nuovamente messo in forma e abbracciato da una gioiosità danzante di vita e di bellezza. Ma può essere anche un anelito di deindividualizzazione radicale, un’anticipazione simbolica di un morire che significa per l’appunto accettare la superficialità radicale della nostra esistenza che non è più che circolazione velocissima, istantanea, di immagini ormai non totalizzabili più in una coscienza e in un senso. O forse è la constatazione che nella civilizzazione contemporanea la vera forza della produzione estetica sta nell’imprevisto, nel comporsi inatteso delle forme nella complessità della relazione sociale postmoderna, e dunque non vi è più spazio per una espressione dell’intimo bensì solo per una metamorfosi camaleontica della creazione artistica nella stessa logica affabulatoria di produzione preterintenzionale dell’immagine della società contemporanea... nel qual caso Trabattoni avrebbe impostato una poeticanella quale dalla combinatoria del segno il prodotto per così dire esteticamente adeguato sarebbe quasi il byproduct, l’effetto collaterale previsto ma non voluto, forse persino lo scarto di produzione assimilabile al rifiuto... come se le macchine desideranti umane fossero capaci, senza neppure rendersene conto e in realtà senza che importi loro poi molto, anche dell’arte, del senso, del piacere. Tutto ciò sarebbe ancora abbastanza semplice se, con una mossa spiazzante, l’autore non ci suggerisse un’ulteriore prospettiva. I suoi lavori stanno dentro volumi e allestimenti che raccontano storie. Stanno dentro messinscene che rimandano a grandi apparati narratologici della tradizione e se ne qualificano come...illustrazioni? simbolizzazioni? metaforizzazioni visive? Forse quest’ultima qualificazione appare la più calzante. Nei fumetti il personaggio che concepisce una nuova idea viene spesso raffigurato con una lampadina sopra il cranio. La lampadina è luminosa: nelle tavole in bianco e nero, talvolta da essa si dipartono segni a china più spessi verso la lampadina e via via percepibilmente più fini al lato opposto. Metafora nella metafora: catena metaforica dentro l’immagine narrativa... Trabattoni forse sposta questo processo al livello del rapporto con la tradizione colta. Forse lo spazio di proiezione della bidimensionalità irreale del desiderio, che non conosce tempo e non conosce radicamento, non è solo l’asse delle circostanze presenti, ma è un universo di parola che arriva carico dei segni della storia, dell’alone di un’esperienza umana consolidata, consegnato a una sua verità che lo rende fungibile solo dentro regole ristrette di apprezzamento e di valorizzazione. Non sarà certo questo limite a fermare la proiezione dell’immaginario: la pelle si moltiplica e si ramifica sopra i segni della storia, si lascia attrarre dalle potenzialità di attinenze e di congenerità che i segni del passato evocano, gioca con la varietà delle metafore della tradizione e libera talvolta nelle scritture di cui si fa destinataria la forza intrinseca stessa del segno, del puro gesto pittografico. C’è però serietà? C’è assunzione etica? O siamo difronte a un puro à renvers ludico, a un’ennesima stravaganza postmoderno-nietzscheana? A mio giudizio, qui, Trabattoni ha ben visto come la proiezione immaginaria non possa tassellare la realtà nel suo insieme. Come non vi sia neppure la concepibilità di un raggiungimento asintottico di questa copertura. Come la pelle in realtà, pur sembrando coprire, sia da leggersi sempre anche come sfondata dall’urgenza del mondo. E sfondata appunto, perché contro ogni urgenza del desiderio il mondo ha tre dimensioni. È spesso, pesante. Grava e uccide; uccide perché usura, logora, reifica, mercifica e spreca. I nostri desideri lo avvolgono di una sorta di incantamento, tentano di incatenarne la forza distruttiva, evocano la ricchezza della nostra tradizione per imbrigliarlo: ma sono solo desideri. Dobbiamo imparare a goderne senza infingimenti e vergogne, perché sono più umani e più veri dei mezzi preconfezionati destinati dallo spazio sociale al loro soddisfacimento; ma dobbiamo imparare anche a relativizzarli e a metterli al servizio di quel modello più complesso e integrato di identità che unisce il gesto, il lavoro, la morale e l’Eros, e si compendia nell’arte.
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